Dagli Usa all'Italia andata e ritorno: un mito si racconta La seconda vita di Kim Hughes tra Reggio Calabria e Capo d'Orlando «Nessun rimpianto per la Nba: c'è una vita anche fuori da un campo di basket» Il totem bianco della Viola " Il mito della Viola - di quella Viola che teneva alto il vessillo di Reggio Calabria quando la città veniva offesa e vilipesa in tutta Italia - si fonda su Kim Hughes. Quando la Viola nel lontano 1983 sui affacciò in serie A2 coach Gianfranco Benvenuti scelse, senza esitazione, Hughes come perno sui cui fondare la sua squadra. Assieme a Hughes arrivo anche Cj Kupec, ala forte, dal tiro mortifero. En- Piero Gaeta REGGIO CALABRIA Killerèiltempo. Distrugge tutto, cancella ogni cosa. Solo i ricordi gli resistono. E la passione, che sopravvive al tempo. Non si spegne ed è più forte di tutto. Così come Kim Hughes era il più forte di tutti sul parquet del "Bot-teghelle", quella era la sua casa e bisognava giocare con le sue regole. Le regole di un campione senza tempo, divorato dalla grande passione per il basket. E quella stessa passione, oggi, l'ha riportato a 65 anni a rimettersi in pantaloncini e a chiudersi in una palestra, trambi gli Usa si aggiunsero al talento oriundo di Mark Campanaro e al "quarto americano" Max Bianchi,e he governava tutto dalla ca-bian di regia. Furono anni indimenticabili, che fecere innamorare Reggio del basket e della Viola. Tutto ruotava attorno a Kim Hughes: rimbalzi, difesa, stoppate, ma anche un preciso punto di riferimento in attacco con il suo irresistibile gioco spalle a canestro. quella di Capo d'Orlando, per cercare di fare migliorare i giovani talenti del basket. Sì, Kim ne ha cose da insegnare ai più giovani e in Sicilia l'hannosu-bitocapito, infatti l'hannochia-mato e adesso si godranno i risultati di un grande pivot che in Italia predicava basket, dopo avere vinto un titolo Aba con Julius Erving (il mitico Dr. J), condito anche dalla conquista di un posto nel quintetto dei migliori rookie di quell'anno. «Mi trovo bene a Capo d'Orlan-do-dice il migliore pivotdella storia della Viola (molto piùfor-te anche di Dean Garrett)-Viaggio da Reggio Calabria e lavoro con i loro giovani tre volte alla settimana. Faccio degli allenamenti intensi, senza soste, e credo che i ragazzi ne traggano beneficio. I Sindoni sono gente speciale, ho parlato con loro e abbiamo trovato un buon accordo. Un accordo chiaro. Adire la verità, ho parlato anche con mia moglie e lei ha capito che non potevo resta re troppo tempo chiuso in casa. Su un campo di basket mi diverto ancora». Si diverte ancora Kim a insegnare i trucchi del mestiere ai più giovani, ma in fondo in fondo ha anche una grande nostalgia di quel basket che si giocava ai suoi tempi, prima che la linea da tre punti trasformasse lo show. «Lo dico con tristezza - ammette con sincerità - il basket ai miei tempi era più bello. Si giocava con i pivot, si difendeva duro, si dava la palla sotto canestro, poi è arrivato il tiro da tre punti...». Ed è cambiato tutto. Oggi si gioca un altro tipo di pallacanestro e-saremo nostalgici anche noi ma concordiamo con Hughes-sicuramente meno bella di quella degli anni 80. Il motivo? Lo spiega il prof. Hughes: «Regole diverse e anche ragazzi diversi. Oggi non si tira più da due punti. 0 si schiaccia o si cerca il tiro dall'angolo e se la difesa copre, si penetra e si scarica ancora fuori per un tiro da tre. Ai lunghi non si insegnano più i movimenti spalle a canestro ma solo a tirare da fuori. Ai miei tempi c'erano almeno 15 pivot dominanti. Oggi, forse, ce ne sono due». Il gancio e il semigancio erano armi letali nella faretra di Kim. Una sera al Botteghel-le, la Viola giocava contro la Silverstone Brescia, Kim volò in cielo per stoppare il gancio-cielo di GregWjItier... «Roba di 32 anni fa», rammenta Kim. E sempre roba di 32 anni fa: a Livorno Hughes si gravò di quattro falli dopo appena 10 minuti, eppure riuscì a terminare la gara senza commettere il quinto e la Viola vinse. Così come quando la Viola vinse a Treviso (59-60) la sua prima partita in trasferta in A2 con in panchina il giovane Gaetano Gebbia, fu sempre Hughes, dall'alto dei suoi 211 centimetri, a palleggiare in un angolo negli ultimi secondi, sinoal suono della sirena. Altri tempi... Sicuramente C.J. Kupec, ài CJ Kupec era un campione che voleva vincere, Joe Bryant un uomo fantastico ma tirava, tirava... «A Reggio sono a casa: vivo con mia moglie, due cani e tanti amici E a Capo d'Orlando mi trovo molto bene» che faceva una gran coppia con Kim nella Viola al primo anno di A, sarebbe andato a noz- ze con il tiro da tre. «Kupec era un campione. Non era solo un tiratore, ma faceva un buon ta-gliafuori a rimbalzo, aiutava la squadra anche se poteva difendere meglio. E poi era un vincente. Perlui veniva prima il gruppo e poi tutto il resto». Altro elemento che avrebbe "spaccato" con il tiro da tre era Joe Bryant, il papà di Kobe. «Un uomofantasticoJoe,malui pensava soloatirare... Il nostro coach (all'epoca era Santi Puglisi, che aveva preso il posto di CaccoBenvenuti, ndr) non gli diceva niente e lui tirava e ancora tirava. Difficile vincere giocando in quel modo». Un prototipo dei giocatori di oggi. Kim lo dice quasi rassegnato, come un'evoluzione dei tempi: «Oggi i giocatori pensano solo a loro stessi e alle loro statistiche. Più canestri fanno, più guadagnano... Lo dico con molta amarezza». Hughes è un americano che ha deciso di tornare in Italia dopo lunghi anni d'assenza. Oggi vive nella "sua" Reggio Calabria con la moglie, duecani etanti amici. Ha partecipato all'Old StarGa-me organizzato al "Pentimele" per le vecchie glorie della Viola e il calore di quella sera l'ha riportato indietro nel tempo. Quando giocava sembrava un gentleman inglese, sempre composto, educato e ordinato, ma in realtà era duro, "cattivo" e soprattutto un trascinatore. È stato un pezzo di storia della Winsconsin University (con il gemello Kerry costituiva le Twin Towers ofpowers), ha giocato nella Nba, poi ha allenato nello staff dei Denver Nuggets, Milwaukee Bucks, Los Angeles Clippers, dove è stato anche capo allenatore, e Portland Trailblazers. Dagli States suggerì alla Viola di prendere l'allora sconosciuto Ben Walla- ce (il pivot che poi fece le onde nella Nba soprattutto con Detroit) appena uscito da una piccola Università ed era inesperto. Si vedeva che era un talento fisico spaventoso ma coach Gebbia gli preferì l'esperienza di Mike Brown. Hughes, però, aveva visto giusto... Da un po' ètornato in Italia, dove aveva sfiorato uno scudetto con il Banco Roma di Valerio Bianchini prima di fare grande la Viola. Perché? «Perché la Nba non è il paradiso che sembra dafuori. Èuncircuscheti assorbe totalmente, lo lavoravo dalle 5 del mattino fino alla sera tardi. Vedevo la mia famiglia solo a pranzo. Dopo un po' ti accorgi che non si può vivere in quel modo. Poi, a me, piaceva allenare, fare crescere il talento dei giocatori, parlare con loro... ma quando giochi quattro sere a settimana, viaggi da un angolo ali'altro degli Usa non c'ètempo né perallenare né per vivere. E allora ho deciso di tornare in quella che considero la mia città». Reggio significa anche Viola dove aveva ricominciato ad allenare nel 2015, prima chetut-tofinisse. «Eancora non conosco il motivo, quello vero intendo. Avevo parlato con Condello e Monastero ed eravamo d'accordo su tutto. Sono partito per gli States, dove sono rimasto tre settimane, e quando sono tornato, tutto era cambiato. Forse Condello ha avuto paura di me...». Adesso c'è questa nuova avventura a Capo d'Orlando, in Serie A, dove si è immediatamente fatto apprezzare e voler bene. «Coach Di Carlo è una bravissima persona ed è un gran lavoratore. Sono felice di lavorare con lui. Ma lofaccio solo tre volte alla settimana poiché voglio avere tutto il tempo possibile da dedicare alla mia famiglia». < Campione intramontabile. Kim Hughes con Joe Bryant nel 1987 a Reggio Calabria e con la famosa canotta n.8 della Viola In alto: un abbraccio senza tempo con il mitico presidente Giuseppe Viola al "Pentimele" durante l'Old Star Game del 2016 L'ex compagno Lucio Laganà ritrova Kim come "sviluppatore" del figlio Matteo «Era un coach anche quando giocava» REGGIO CALABRIA «Kim Hughes, per noi italiani, è stato un grande esempio. Ho sempre avuto una stima smisurata nei suoi confronti, d'altra parte io ero un giovane esordiente in Serie A2 e lui campione affermato». Parole e musica sono di Lucio Laganà, reggino purosangue indimenticato grande giocatore prima della Viola e poi del Barcellona, che ci ha spiegato il motivo della grande stima che lui e gli altri italiani nutrivano nei confronti di Hughes. «Coach Gianfranco Benvenuti aveva due tipi di trattamenti: uno intransigente per gli italiani e uno più dolce per gli americani. Gli americani, per esempio, erano esentati dagh allenamenti mattutini, tuttavia Kim non ne saltava uno anche se era autorizzato a starsene a casa. Era sempre presente per fare pesi ed allenarsi magari da solo e anche per cementare lo spirito di gruppo nella squadra. Ecco, lui ha insegnato a noi che erava- mo più giovani l'etica del lavoro e l'amore per questo sport. Già da giocatore si vedeva che aveva le stimmate del coach ». La storia che si ripete in continui corsi e ricorsi ha voluto Kim Hughes "spiega" pallacanestro ai giovani dell'Orlandina che quest'anno a Capo d'Orlando si incrociassero ancora i destini di Kim Hughes e di un Laganà su un campo di basket. Solo che, questa volta, il Laganà si chiama Matteo e non Lucio e non sono più compagni di squadra ma "player develop-ment coach" e allievo. «Oggi posso rivelare - afferma Lucio - che se Matteo, che ha 17 anni, ha scelto di giocare a Capo d'Orlando, la "colpa" è anche di Kim. Potersi allenare con lui che sa bene come tirare fuori da ogni ragazzo il massimo del proprio potenziale, è un'occasione che non si poteva davvero perdere. Oggi Matteo è felicissimo di allenarsi e sviluppare il suo talento con Kim. Lo fa tre volte alla settimana e sono sedute b