BASKET - INTERVISTA AL COACH DELLA NAZIONALE «La nazionale? Cerco gente che abbia fame» Romeo Sacchetti ieri sera ha presentato il suo libro al Glamour: «Organizzerò dei raduni per valutare i migliori italiani della A2» clerico Danna e Luca Murta hanno moderato la serata con Romeo Sacchetti ¦ «Chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio». Questa massima di José Mourinho sembra calzare a pennello anche per Romeo Sacchetti, allenatore della nazionale italiana di basket. Perché lui è un uomo che sa tanto di tanti argomenti. E perché nella sua vita ha affrontato spesso sfide che vanno oltre lo sport. Lo ha ribadito ieri sera, al Glamour Lounge & Restaurant di via Gustavo di Valdengo 2 a Biella, dove ha presentato il suo libro "Il mio basket è di chi lo gioca" scritto insieme al giornalista sardo Nando Mura ed edito da Add di Torino. Romeo, dove è nata l'idea del libro? Inizialmente volevo scrivere un racconto da solo. Avevo pensavo a qualcosa di ridotto, da regalare ai giocatori o ad amici allenatori. Poi mi ha contatto questa casa editrice di Torino, che mi ha proposto un progetto in grande stile. Di cosa parla il libro? Della mia storia, umana e sportiva. Inizio dalla mia famiglia, di origine veneta e che si era trasferita in Romania per lavoro. Io sono l'unico dei miei fratelli nato in Italia, in un campo profughi ad Altamura, in Puglia. Ho avuto un'infanzia felice, nonostante le difficoltà. Non ho ricordi spiacevoli né rimpianti, se non per il fatto che non ho mai avuto una bicicletta. Ogni volta che venivo promosso a scuola, i miei genitori promettevano di comprarmela. Ma poi non c'erano soldi e non sono mai riuscito a realizzare questo sogno. Come ha scoperto il basket? A15 anni. Giocavo a calcio da piccolo, poi un giorno ho visto in tv una partita di pallacanestro e mi sono subito innamorato. Ho lasciato il calcio e ho cominciato a praticare basket, cominciando a giocare in oratorio. A proposito di oratori. Numerosi sport di consolidata tradizione in Italia non riescono più a produrre talenti come una volta. Secondo lei, uno dei motivi può essere che non si gioca più negli oratori, che erano delle palestre di vita e dei centri sportivi naturali in cui affinare cor- sa, tecnica, mentalità e condivisione di un'idea di gruppo? Può darsi, ma non ci può essere una sola risposta. Penso che in Italia a mancare spesso sia la fame. Che è la molla che permette a un ragazzo di voler affermarsi e credere in un progetto a qualunque costo. Io ad esempio ho affrontato tante difficoltà, prima da giocatore e poi da allenatore. Ho ricevuto molti rifiuti. Mi hanno esonerato. Nessuno mi ha mai regalato nulla. Eppure ho sempre mantenuto la testa dura e ho imparato che la filosofia migliore è quella di essere aperti, liberi e non farsi troppo condizionare da eventi esterni. Non mi sono mai tirato indietro, cercando di ripartire ogni volta più forte. Ho fatto tanta gavetta. Come allenatore ricordo gli inizi nelle categorie giovanili e la prima panchina ad Asti in C2. E' partendo da h che ho costruito una carriera che mi ha permesso di arrivare a vincere lo scudetto con Sassari e oggi alla guida della nazionale. A proposito dello scudetto con Sassari. E' il ricordo più bello della sua carriera? Prima ne metterei uno di quando ero giocatore, quando con la nazionale sono arrivato a disputare le Olimpiadi di Mosca nel 1980. Le Olimpiadi per me sono il massimo, il sogno di ogni sportivo. Poi, certo, quello scudetto vinto da allenatore con mio figlio Bryan in campo mi ha dato una soddisfazione enorme. Come gestirà il doppio impegno di allenatore dell'Italia e di Cremona? Non è un problema, anche perché non sono incarichi sovrapposti. E poi quando la nazionale chiama non si può dire di no. E' il traguardo più ambito da ogni allenatore, un'emozione unica. Quali saranno le sue linee guida per provare a far compiere al movimento un salto di qualità, in modo da renderlo più competitivo sul piano internazionale? Cercherò giocatori che abbiano fame. Un concetto che si lega a quello che dicevo prima. Molte volte si dice che il campionato di serie A è troppo pieno di stranieri. Ma non è colpa degli allenatori. Gli allenatori devono vincere, altrimenti rischiano di essere lasciati a casa. E quindi si affidano a chi è più pronto e può dare loro maggiori garanzie, indipendentemente dalla nazionalità. Spetta ai giocatori italiani avere quella fame, quella voglia di emergere per prendere il posto degli stranieri. Il problema è che dai 18 ai 22 anni non hanno forse a disposizione un campionato di sviluppo in cui giocare, essere protagonisti e crescere. E' un buco che in qualche modo va colmato. I pochi bravi, che hanno già un talento superiore alla media, riescono a farsi spazio in serie A. Gli altri finiscono in panchina e la loro carriera subisce una frenata. Forse la serie A2 da qualche tempo a questa parte sta cominciando a dare maggiore spazio ai giocatori italiani. Parlando di A2, cosa pensa di una realtà come Pallacanestro Biella che da sempre valorizza i giocatori italiani, anche sfrattando la competenza e l'esperienza? Pensa che qualcuno di loro (da Laganà a Lombardi, da De Vico a Tessitori) possa essere utile in ottica azzurra? Di giocatori potenzialmente interessanti ce ne sono parecchi. Soprattutto in A2. Proprio per questo, una delle idee che ho in mente è di organizzare dei raduni tra gli italiani più bravi della Lega Due, in modo da poterli osservare da vicino, avviando anche maggiori contatti e collaborazione con gli allenatori del secondo campionato nazionale. Se riusciremo a creare una rete a più ampio raggio potremo ottenere benefici per tutto il basket italiano. Cosa rappresenta per lei la pallacanestro? Uno sport bello, veloce e coinvolgente, dove i giocatori siano protagonisti. Un concetto che ho cercato di esporre anche nelle pagine del mio libro. Il basket mi ha aiutato a conoscere mondi e ambienti diversi, ha aperto porte nuove e mi ha regalat